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Il valore di quello che si legge

Nel pezzo precedente ho cercato di mettere in evidenza alcuni fattori strutturali per cui, oggi, non è più sostenibile il modello economico classico dell’editoria, basato sul controllo delle copie, a sua volta fondato su una concezione del valore come funzione della scarsità di un bene, che è comune tanto alla teoria oggettivista (valore come lavoro contenuto in un bene) quanto a quella soggettivista (valore come grandezza determinata dagli scambi).

Come si può determinare il valore di un libro?

Direi di ricominciare da qui: per capire come cambia il mondo al tempo del digitale, bisogna mettere in discussione anche quello che sappiamo del mondo materiale che la nostra specie abita da prima ancora di esistere. Questo perché la dimensione digitale non si colloca accanto a quella materiale, non è soltanto virtuale, ma è reale e concreta, fa parte delle cose che possiamo vedere e toccare (ascoltiamo musica e vediamo immagini e filmati composti di bit e non di atomi) e, soprattutto, perché l’umanità convive da sempre, da prima ancora di farsi storia, con entità e processi fatti di sole informazioni, che pure hanno inciso in modo determinante sulle nostre vite: basti pensare alle leggi, alle religioni, alle identità culturali o allo stesso denaro. Le tecnologie del digitale, in altre parole, si limitano (finora) a fare quello che ogni tecnologia ha sempre fatto: migliorano l’efficienza del nostro agire, rendendo possibile la produzione di maggiori quantità di beni con meno risorse e, con ciò, aprendo la possibilità di produrre beni completamente nuovi e di modificare le strutture culturali e sociali esistenti.

A ben vedere, è un processo che si è già visto in tutta la storia umana: per esempio, lo sviluppo dell’agricoltura ha reso possibili (anzi, necessarie) forme inedite di organizzazione sociale e culturale, dando vita alle civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e della Cina, che a loro volta hanno prodotto forme e modalità inedite dell’agire umano. Le piramidi, insomma, sono un prodotto secondario della tecnologia di regolazione delle piene del Nilo per migliorare l’agricoltura. Il punto è che, ogni volta che si elabora una teoria per comprendere le conseguenze di un’innovazione tecnologica, questa teoria funziona davvero solo se riesce a spiegare anche quello che c’era prima e a rendere, così, conto di come questa nuova tecnologia si sia insediata nelle nostre società e nelle nostre vite.

Partiamo allora da una delle domande più classiche: perché un bicchiere d’acqua nel deserto vale più di uno accanto a un ruscello di montagna? La teoria oggettivista non ha difficoltà a rispondere che portare un bicchiere d’acqua nel deserto richiede molto più lavoro che riempirlo nel ruscello lì accanto e quella soggettivista, dal suo canto, non ha maggiori problemi nel dire che viene attribuito più valore negli scambi a una merce rara, per cui nel deserto l’acqua vale più della sabbia.

Vorrei provare a introdurre un approccio diverso: un bicchiere d’acqua nel deserto vale di più perché soddisfa un bisogno maggiore o, meglio, perché soddisfa un bisogno che è meno facile da soddisfare. Questa risposta unisce elementi della prospettiva oggettivista (la minore facilità della soddisfazione è direttamente collegata alla quantità di risorse che servono a soddisfarlo, e dunque di risorse) e di quella soggettivista (certamente i bisogni e la difficoltà relativa di soddisfarli hanno un ruolo chiave nelle negoziazioni tra gli attori del mercato). Il punto interessante, però, è che in questo paradigma tutto fa leva su una grandezza spesso assente nelle teorie economiche, quella del bisogno che pure è, con ogni evidenza, la ragione stessa per cui agiamo e, ancor più, per cui instauriamo delle relazioni economiche.

Ovviamente non è questo il posto giusto per fornire un’esposizione completa di questo tentativo di ripensare il concetto di valore (e, conseguentemente, l’economia stessa) a partire dai bisogni e dalla loro soddisfazione. Credo però che sia interessante provare a vedere cosa succede se usiamo questa prospettiva per definire il valore di un oggetto digitale, quindi infinitamente riproducibile con una quantità di lavoro trascurabile e, perciò, talmente sovrabbondante da non poter essere valutato secondo principi di mercato.

Infatti, a identificare il valore di un bene con la sua capacità di soddisfacimento dei bisogni, si ottiene un duplice risultato: da un lato, continuano ad avere valore anche beni sostanzialmente privi di costi di produzione, dall’altro ci si libera del problema della scarsità, attribuendo un valore reale anche a beni abbondanti. La questione dei libri (e degli altri prodotti) digitali, come si può facilmente immaginare, si adatta alla perfezione a questo contesto: un libro digitale soddisfa certo il bisogno di un lettore, tanto che è disposto a pagare per leggerlo, indipendentemente da tutte le considerazioni degli economisti, oggettivisti o soggettivisti che siano.

Ma il punto interessante, qui, è un altro: a soddisfare il bisogno del lettore non è il possesso della copia, ma l’atto della lettura. Il lettore vuole il testo che è contenuto nel file, non un qualche oggetto fisico (diciamo, un parallelepipedo formato da un certo numero di fogli di carta stampati e numerati tra due copertine e chiuso su un lato da una rilegatura). Dunque, le modalità di produzione e di distribuzione dell’oggetto che contiene il testo, così come tutto l’apparato di norme a tutela del copyright per garantire i proventi di autori ed editori, sono qualcosa di essenzialmente estrinseco rispetto ai bisogni del lettore, che pure costituiscono la ragione ultima per cui un libro viene acquistato.

Se mettiamo al centro la lettura, il bisogno del lettore di vivere quella certa storia, di sapere come va a finire quella vicenda, di imparare qualcosa sulla Guerra dei Trent’anni o sui macachi giapponesi, di trovare fonti autorevoli per sostenere una teoria o, in generale, di leggere qualcosa; se mettiamo al centro le molteplici relazioni che un lettore può avere con un libro, allora cambia tutto. Perché un libro non è solo un oggetto che si compra, è anche e soprattutto qualcosa con cui si instaura una relazione: un libro si legge, si rilegge, magari si lascia a metà, lo si presta, lo si regala o lo si rivende; da un libro se ne possono aprire molti altri, un libro può spingerci ad ascoltare una musica, ad assaggiare un cibo, a visitare un posto lontano o vicino. Un libro può essere citato, può ispirare un seguito o una versione derivata, può attraversare infinite incarnazioni e soddisfare infiniti bisogni.

I libri, come sono davvero: oggetti a molte dimensioni, da percorrere in modi infiniti

Il bello è che possiamo immaginare un modo in cui i libri non vengono più acquistati, per così dire, in blocco una volta sola, prendere o lasciare. Possiamo pensare a una relazione continua, in cui si tenga traccia di tutto ciò che avviene tra un certo libro e un certo lettore. Per esempio, un testo scientifico può essere dato in lettura gratuita a tutti gli abbonati di un certo servizio, ma le citazioni che se estraggono possono venir pagate; si possono pagare solo i capitoli di un romanzo che leggiamo davvero, magari potendolo abbandonare senza sensi di colpa. Possiamo pensare a libri che cambiano, ricevendo aggiornamenti, integrazioni e aggiunte, per esempio con le illustrazioni o le traduzioni fornite da lettori che siano anche abili professionisti, oppure a saggi e testi scientifici che diventino parti di un discorso continuo, un labirinto dalle molte vie o, appunto, una biblioteca. Possiamo pensare a libri che cambiano di mano, che vengono rivenduti su un mercato secondario a cui l’autore continua a partecipare, che vengono presentati, recensiti e consigliati, affiancati ad altri libri, a film, a spettacoli e cene, a viaggi e a tutto quello che può esserci, in un viaggio nel quale ogni tappa dia qualcosa al lettore, e qualcosa venga riconosciuto a chi ha reso possibile questo viaggio.

Possiamo, insomma, pensare a una miriade di modi per vivere, anche dal punto di vista economico, i libri per quello che sono: dei legami, delle reti di rapporti tra autori, lettori, editori e tutte le altre figure che in questo modo possono essere coinvolte.

Cero, si dirà, tutto questo può essere suggestivo, magari persino affascinante, ma siamo nel regno della pura fantasia: è troppo complicato, figuriamoci se si è in grado di star dietro a ogni copia di ogni libro, ci sono troppi soggetti coinvolti e così via. Nulla di tutto questo: la tecnologia, almeno in nuce, esiste già e si compone di due parti: un’architettura blockchain che permette di certificare ogni passaggio attraversato da ogni copia di ogni libro, e un sistema di smart contract che definisce, per ognuno di questi passaggi, i costi e le spettanze di ciascuno. Il bello è che uno smart contract si applica automaticamente, senza che vi sia la necessità di controllare ogni passaggio e di accusare ricevute da esaminare e confrontare: in questo modo, è possibile leggere i libri, viverli e condividerli, dando all’autore tutto ciò che gli spetta, per la sua capacità di soddisfare bisogni così importanti.

Nel prossimo pezzo, cercherò di spiegare come tutto ciò sia possibile.

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